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Lorenzo Barone,
l'ultimo vero esploratore

Ha cominciato a girare il mondo in sella alla sua bici all’insegna dell’avventura alla ricerca di una connessione con la natura più selvaggia e incontaminata.

Lorenzo, nel 2015 a 18 anni spaccati sei partito in bici.
Perché hai scelto la biciletta? E perché questo desiderio irrefrenabile di
viaggiare?
Fin da piccolo sono sempre stato attratto dal bosco e dal canneto sotto casa, dove fondamentalmente mi divertivo a stare per gli affari miei. Ero un bambino molto attivo ma allo stesso tempo molto introverso e mi piaceva tutto sommato stare lì, a costruirmi archi e frecce e vivere piccole avventure quotidiane in completa solitudine. Poi crescendo mi sono allontanato da quel luogo, ma ho sempre mantenuto l’esigenza di sfogare la mia fisicità. Per questo ho iniziato a fare parkour, che in un certo senso mi permetteva di esplorare altri ambienti e di viverli a modo mio. Ovviamente da adolescente avrei tanto voluto il motorino, ma mia mamma era contraria, perché nella sua professione di fisioterapista aveva continuamente a che fare con ragazzini vittime di incidenti stradali. Quindi per anni la bici era l’unico mezzo di trasporto che mi fosse concesso, ma non l’ho mai vissuta come una privazione. Anzi, la bici aveva un sacco di lati positivi: era un mezzo gratuito e ti portava lontano. A me che piace lo sport, inoltre, mi permetteva di rimanere in forma, era ecologico (anche se all’epoca non ci pensavo) quindi per tutti questi motivi l’ho sempre ritenuta il mezzo ideale per spostarmi ovunque. E così a 18 anni sono partito, prima per un viaggio vicino casa e, una volta tornato, quasi subito ripartito per Portogallo e poi da lì in poi non mi sono più fermato. Partire da solo è stato un po’ come tornare alle origini, tornare al boschetto sotto casa ma andando a vedere cosa c’è al di fuori dei confini che fino a prima conoscevo.

«I would like that the only limits are my abilities rather than the use of a specific tool so that I am free to fully experience every adventure.»

Ma via via, nelle tue avventure, hai continuato ad aggiungere e cambiare modi di viaggiare: prima con gli sci attraverso l’Islanda, adesso nell’ultima attraversata della Norvegia hai aggiunto anche il kayak. Un modo di esplorare in continua evoluzione.
Sono partito con la bici pensando che la bici potesse darmi la possibilità di viaggiare senza limiti, ma poi mi sono reso conto che la bici era di per sé “il limite”. Perché vedevo le montagne ma non potevo salirci; vedevo i fiumi ma non potevo percorrerli; vedevo l’oceano ma non potevo attraversarlo; superavo i deserti ma solo su tracciati già battuti. Gli obiettivi che mi sto ponendo e i viaggi che sto programmando prevedono diversi tipi di mezzi di trasporto, vorrei arrivare a viaggiare mescolando un po’ di tutto: la bici, la barca, gli sci, la corsa a piedi. E per questa ragione sto cercando di allenarmi a 360° su più attività per fare in modo di non avere problemi quando sarò in viaggio. Vorrei che gli unici limiti fossero dettati dalle mie effettive capacità più che dall’utilizzo di uno strumento specifico, in modo da essere libero di vivere appieno ogni esperienza.
Ovviamente in tutto questo tuo viaggiare sei passato da ambienti estremamente caldi ad estremamente freddi, tra i due quale preferisci?

 

Tutti e due! (ride) Forse il freddo lo sento un po’più mio. Il caldo è più semplice perché anche se sudi molto ti basta reintegrare;quindi, bevi anche 12 litri di acqua al giorno e sei a posto. Il freddo è piùtecnico, richiede più preparazione e non ti perdona neanche i più piccolierrori. Se sudi quando fa tanto freddo è un problema, quindi devi imparare agestire la sudorazione, bisogna imparare ad avanzare senza sudare per evitaredi congelare una volta che ti fermi.
Come descriveresti come si sta a 50°C sottozero ad uno che non ha mai provato il freddo estremo?
È come essere in un forno ma all’inverso, l’aria è secca però ti brucia. Il vento ti ustiona la faccia, non so se è la composizione dell’ossigeno che cambia a quelle temperature ma hai come la sensazione di respirare dentro una stanza polverosa. Infatti, per respirare in quelle condizioni, ho dovuto modificare un passamontagna per fare in modo che l’aria fosse leggermente più calda prima di inalarla. È pazzesco come cambiano le percezioni dai -40° ai -50°C: a -40°C si sta tutto sommato bene (ride). È un freddo particolare, non ho grandi ricordi di tremori ma lo devi gestire bene altrimenti ti crea dei danni seri. La pelle ti può andare in cancrena in pochissimo tempo, infatti controllavo abbastanza di frequente che il naso sotto il passa montagna avesse sempre sensibilità.
Qualcuno ha detto che la prima cosa da mettere in valigia quando si parte deve essere la voglia di tornare. Se non si ha un punto di riferimento verso il quale fare ritorno, il rischio è quello di perdersi. Tu hai mai rischiato di perderti e di non voler più tornare?
Assolutamente sì, all’inizio mi perdevo, soprattutto prima che mi sposassi. Oggi è mia moglie che mi dà la motivazione di ritornare. Per i primi due anni e mezzo di viaggio (i primi 35.000 km) li ho fatti sempre perdendomi, non avevo una meta: partivo, trovavo un altro viaggiatore, cambiavo percorso oppure prolungavo la sosta in un posto. Era un viaggio–vagabondaggio. Questo succedeva soprattutto all’inizio, poi successivamente ho un po’ evoluto il mio modo di viaggiare. Mi prefiggevo delle mete, anche abbastanza ravvicinate ma non prestavo troppa attenzione a quanto tempo impiegavo per raggiungerle. L’importante era collegare tanti tasselli. Adesso invece progetto il viaggio, e cerco di pianificarlo in modo che abbia un senso per me in primis, ma che soprattutto abbia un significato più profondo. Ad esempio, la strada più a nord del mondo, o la strada più a sud del mondo, piuttosto che la strada più fredda: sto cercando un filo logico. Quando sono a casa soprattutto dopo aver finito un viaggio sento sempre quell’esigenza di un altro obiettivo, non deve essere per forza da raggiungere a breve termine, ma almeno averlo. Ho bisogno di sentire che ho qualcosa per cui mettermi in gioco perché altrimenti rimango a casa e mi sento totalmente perso. Rispetto all’inizio, dove prendevo la bici e partivo, anche fosse solo per andare in un’altra regione, adesso non ho più l’obiettivo di mettermi alla prova in condizioni estreme quanto di vivere nuove esperienze di dargli un senso e di poterle raccontare per portarle ad un pubblico più vasto.

2000 km by bicycle,
650 km on skis,
550 km by kayak.

Sei partito che eri una persona introversa e molto timida, ora le tue serate sono piene di persone che vengono ad ascoltare i racconti dei tuoi viaggi e delle tue avventure. Viaggiare ti ha cambiato?
Nel mio viaggiare ho fatto diverse cose: il giocoliere per strada, ho venduto le foto dei viaggi per finanziarmi un po’, le serate dove raccontavo le mie esperienze. Più che il viaggio in sé è stato l’entrare in contatto diretto con altre persone che mi ha aiutato ad aprirmi di più. L’istinto sotto sotto è rimasto lo stesso, perché se mi chiedi: vai in una città e fai le sarete per tutti i fine settimana, o vai in un’isola remota? Forse sarei più per la seconda opzione, ma ho imparato a gestire entrambe le cose cosa che prima non sarei mai riuscito a fare. Nelle prime serate all’inizio avevo difficoltà, poi con il passare dei giorni ho preso coraggio e le cose sono migliorate. È una crescita interiore, un’evoluzione naturale dell’essere.
I tre luoghi che ti hanno dato di più dal punto di vista umano?
Al primo posto direi la Jacuzia, soprattutto le popolazioni dei villaggi più remoti, quelli che ho visitato nel mio viaggio attraverso la strada più a nord del mondo, hanno un’ospitalità incredibile che davvero non ha eguali. Poi direi l’Indonesia e il sud-est asiatico come il Borneo. Lì ho avuto modo di entrare in contatto con le popolazioni Dayack, nella giungla, non avevo nessuna aspettativa quando sono partito e mi sono davvero stupido dell’accoglienza che ho trovato. Ultimo, il continente africano, è un’esperienza che a livello umano mi ha dato tantissimo.
Ed i luoghi ti hanno lasciato sbalordito dal punto di vista paesaggistico?
Sicuramente le prime volte nelle zone artiche, la Lapponia nel 2016, le aurore boreali viste per la prima volta. L'Islanda è un paese unico: vulcani, muschi a non finire, queste rocce vulcaniche che sembra di stare su un altro pianeta e poi ci sono ghiacciai, iceberg, cascate, è davvero un paese che davvero mi è rimasto dentro. La Jacutia per il suo freddo, davvero estremo e difficile da raccontare. Ma anche il Borneo con i suoni della giungla, ho dovuto registrarli con il telefono perché sono qualcosa di indescrivibile. La Namibia e la Tanzania mi hanno lasciato negli occhi tratti di strada davvero indimenticabili. Il Sahara, i monti dell’Atlante. Ma forse alla fine non è tanto il luogo in sé per sé ma quanto lo stato d’animo con il quale approcci questi luoghi. Se sei aperto e riesci a cogliere tutte le piccole cose belle che ti circondano, non è importante dove le trovi, ma con che occhi le guardi.

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